La grande cicatrice_Exilium 01
dai Tristia di Ovidio e Todesfuge di Paul Celan

“Esiliato? Questa parola, o padre, la pronunciano i dannati dell'inferno."
William Shakespeare

credits

 Il video è disponibile su Vimeo, previa richiesta password, al link 

http://vimeo.com/33864421


La grande cicatrice_Exilium 01 è una performance poetico visuale dai Tristia di Ovidio e dalla Todesfuge di Paul Celan, creazione di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, musica di Andrea Azzali, interprete Valentina Barbarini, produzione Lenz Rifrazioni.
Ne La grande cicatrice i versi del poeta latino Ovidio, scritti dalla terra d’esilio a Tomi (l’attuale Costanza) in Romania, accompagnano i versi di Celan, il poeta ebreo rumeno che ha vissuto esule in Francia, ma che ha scritto in tedesco - la lingua della madre e della Shoah - la sua opera più nota (‘Fuga dalla morte’) dedicata all’orrore del genocidio nazista ed estesa a tutta l’umanità in sofferenza.

 


Il binomio/confronto è costruito attraverso una drammaturgia visiva e materica agìta da due figure femminili, Sulamith - l’Amata del Cantico dei Cantici e personificazione della nazione ebraica - dai capelli color cenere, testimonianza dell’identità giudaica arsa nei campi di sterminio della Grande Germania hitleriana e Margrete - l’Amata dell’Urfaust di Goethe, simbolo letterario femminile della nazione tedesca – la donna dai capelli d’oro della tradizione umanistica ottocentesca.
L’identità visiva della performance si definisce attraverso un’imagoturgia polarizzata su un grande cilindro disegnato scenicamente dentro il corpo dell’interprete, e si sostanzia in un’impalcatura installativa di forme domestico-metallico-anatomiche che, accogliendo i corpi agonizzanti di Sulamith e Margrete, rafforzano matericamente la condizione di violenza e costrizione a cui sono costretti i personaggi: il letto, il tavolo, la sedia, elementi primari di quotidianità, si traspongono in incubi metallici che custodiscono drammaticamente il destino tragico delle due donne. Il grande spazio del cantiere ferito e cicatrizzato dalla decostruzione urbanistica entra nella dimensione performativa testimoniando, attraverso una compenetrazione visiva estrema, la forza devastante della Storia che compone tutto, umani e paesaggio, in un unico Campo tragico.

I lunghi capelli di cenere di Sulamith - in cerca del suo amato ed esposta alla stessa violenza oscena ed indiscriminata che si accanisce contro gli ebrei – seppelliscono l’interprete in un vortice materico oscuro scandito da rintocchi sonori votati a presagi di morte: nel lento annientamento della sposa nelle mani dei suoi carcerieri - inciso in un’agonia di sbarre in cui sembra precipitare - si inscrive la condanna finale di un intero popolo. Nella disperata invocazione di Margrete, che chiede pietà prima della condanna a morte per l’uccisione della madre e del figlio neonato – appesantita dalle croci ai piedi e distesa sul lettino metallico della sua cella - si affaccia l’incubo irrisolto di una nazione culla e maestra del male assoluto.

Al destino tragico delle due donne si accomuna la sofferenza esiliata della parola poetica di Ovidio - suggerita da una sorta di epopea tragica collocata ai bordi della scena - condannato dai suoi stessi versi all’allontanamento forzato dalla propria terra. Il ‘Nero Latte’ (Schwarze Milch) della Todesfuge di Celan, simbolo primario della litania della violenza a cui sono inchiodati eternamente i prigionieri ad ogni ora del giorno, viene scandito come in una ‘fuga’ musicale polifonica, dal sussurro finale di un orsacchiotto di peluche stretto al corpo dell’interprete, segno apocalittico dell’infanzia del poeta, in un ‘noi’ lirico spersonalizzante, unica voce possibile dopo la tragedia dello sterminio. L’azzeramento imposto dal paradigma della morte collettiva - l’impossibilità della parola definita dopo il dramma della Shoah - si interseca con il cantico di valorosa sconfitta del poeta e della poesia, condannati per sempre ad una condizione immanente di naufragio e di oblio. 

 

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