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SACRO E PROFANO. LA RICERCA COSTANTE.

Da Calderón a Genet di Lenz Rifrazioni, dalla “Medea” di Latella a “Borges+Goya”
di Rodrigo Garcia, da “Leonce e Lena” di Büchner a Danio Manfredini,
da “I sonetti a Orfeo” di Rilke a Pier Luigi Bacchini, dal film documentario
“Melancolìa contromano” girato in Spagna e Marocco
a suor Marie Keyrouz e l’Ensemble de la Paix.

I segni delle stelle, la ricerca di un dio, il martirio e l’ascesi delle figure calderoniane sono registri presenti in questa fabbrica di perdizione, di bestialità e di tragedia che è la rappresentazione. Ogni Parola viene inghiottita, ruminata e vomitata per essere di nuovo ri-mangiata, la carne diventa allora pane e il sangue vino per una drammaturgia sacra. “ – il più alto dramma moderno si è espresso nel corso di duemila anni e ogni giorno nel sacrificio della messa. Il punto iniziale scompare sotto la profusione degli ornamenti e dei simboli che ancora ci sconvolgono. Sotto le apparenze più familiari – una crosta di pane – si divora un dio” – così scriveva Genet così come, qualche tempo prima, aveva scritto Federico García Lorca: “Attraverso il teatro di Calderón … si arriva al grande dramma, al grande dramma che si rappresenta mille volte tutti i giorni, alla miglior tragedia teatrale che esiste al mondo: mi riferisco al Santo Sacrificio della messa.” E, in Genet, non solo il corpo fisico diviene metamorfosi di una trasfigurazione estatica ed estetica ma anche la Parola stessa diventa carne e visione. Il sogno, la memoria, le immagini improvvise si insinuano tra le pieghe di un testo che diventa, strato dopo strato, involucro di erotismo, moralità, ferocia, ricerca di sacrificio e di bellezza nel suo essere elevato a retablo di una scena celestiale e terrificante.
“Alta sorveglianza” è una fiaba dall’origine antica, attraversa i grandi sogni calderoniani – La vida es sueño, El mágico prodigioso, El Príncipe constante, “non è amore e onore, sangue e Cristo che cercano i tre prigionieri? Non è il teatro sacramentale e tragico quello che vogliono i guardiani spettatori?” -, e la crudeltà dei Grimm e la tagliente religiosità di Andersen. La fortezza è la soglia tra il bene e il male, la zona grigia tra il chiaro e lo scuro dove talvolta ritornano, silenziosi e sfuggenti, prìncipi e gnomi, elfi e dioscuri a rappresentarci com’erano fatti, un tempo, gli dèi giusti e quelli crudeli.
“Ma vagare negli Inferi senza riscatto è condizione frequente nel Moderno; ogni uscita dal labirinto in tal caso si rivela apparente: o il Minotauro debellato nelle profondità si ripresenta nel mondo della presunta salvezza in copie moltiplicate o esso si incorpora come crisalide nel vincitore stesso che risale alla superficie e ancora ignaro si appresta a portar contagio, anziché luce, nel mondo. Nell’interpretazione del LENZ, l’Inferno irredimibile coincide con la profezia della messa a morte dell’Illusione: il Filius Hermafroditus che, così a lungo invocato dal Desiderio delle generazioni, giaceva nel sonno dell’incunabolo rivoluzionario, di prova in prova si è sollevato invano. Invano è sgusciato dai nascondigli, invano si è sporcato con il retroscena del mondo, invano ha riaperto la faccia “all’aria fresca” dopo labirinti di degradazione: il finale lo riporta, preda enigmatica già segnata, nella giacitura passiva dell’origine, nel sonno. La riappropriazione minacciosa del figlio da parte dei genitori è la sconfitta ­ in termini alchemici ­ dell’opus . Il Nuovo verrà divorato dal Vecchio, come proprio ostaggio: questo annunciano gli angeli del Giudizio, i genitori appunto, che nell’ultima scena, mentre ostentano gli strumenti dell’Esecuzione, parlano a lato dell’azione centrale come figure del Coro, portavoci dell’ironia tragica sul Futuro già condannato: il monopolio legittimo della Verità, secondo questa scena, è in mano a chi destina l’Illusione a morte.
Così scrive Luciana Rogozinski a proposito della traduzione scenica di “Pollicino” dei Grimm ma le sue riflessioni riguardano l’intera opera artistica di Lenz Rifrazioni.
“Recitare per gli attori del Lenz ha sempre qualcosa a che fare con il martirio. Ogni volta questo ensemble teatrale “estremista” di Parma mette in gioco il proprio corpo, evidenziandone la spigolosità gruenevaldiana colma di pathos. Rielaborazioni ideate da Francesco Pititto assieme alle istallazioni neobarocche di Maria Federica Maestri. I loro lavori teatrali, memori degli studi psicanalitici di Propp, sono altresì costantemente contaminati dal grande immaginifico serbatoio mitologico delle favole di Andersen e dei Fratelli Grimm. L’ultimo tassello drammaturgico, che ci hanno proposto in prima nazionale nel loro attivissimo spazio postindustriale della periferia di Parma, conclude la trilogia su Calderón de La Barca affrontandone, dopo la Vita Es Sueño e El Mágico Prodigioso, il mitico Principe costante di derivazione grotowskiana. Vale a dire con quello che viene unanimemente considerato uno dei punti più alti del teatro del ‘900. Una dissezione del linguaggio barocco che ci stupisce per efficacia e capacità performativa. Ci sono molte immagini di questo intenso spettacolo tangente alla body art che si sono fissate nella nostra memoria: a cominciare dall’attore protagonista, Alessandro Sciarroni, colpito da una teoria di banderillas come fosse un toro sacrificale. Il racconto sussurrato di lui, abissalmente distante, con le due donne dentro la cuccia smontabile per cani. I tre neri guerrieri che sembrano usciti da un film di Kurosawa, la bibbia di Machintosh, nuovo elemento sacrale del nostro tempo, ieraticamente esibita da Don Fernando. Le cavalcate con i quadrupedi fantocci alla Kantor. I corpi spalmati di nutella che al contempo ci raccontano sofferenze artaudiane e distacco eremitico. Il Principe costante è in qualche modo la traduzione occidentale del grande tema tantrico della imperturbabilità dell’animo umano per raggiungere il samadhi.”
Questo scrive Buttiglieri a proposito de “Il Principe costante” entrando, finalmente, nel reticolo semantico che restituisce senso e significato alla pratica teatrale contemporanea. La sovrapposizione, la con-fusione, lo “sfrenato barocchismo” sono il liberatorio sconfinamento del linguaggio nei molteplici passaggi tracciati dalle esperienze artistiche del novecento, prime fra tutte la performance e la body art. Nel manifesto dell’arte Gutai si afferma:”nell’arte Gutai, lo spirito umano e la materia si stringono la mano.” Da Yves Klein a Gunther Brus, da Beuys a McCarthy, da Gina Pane a Marina Abramovic, da Ontani a Pistoletto l’arte performativa abita, da tempo, i territori del sacro e del profano offrendo al teatro una chiave divina per ritrovare il suo senso antico. Così come la poesia di Rilke con il suo potere iniziatico, come superamento della soglia al “doppio mondo”, così come quella di Bacchini quando ci suggerisce “Ma gli inganni degli uomini a poco a poco ci deludono/- le loro scaltrezze -/e alla fine ci annoiano, e la vita che si cerca/è solo la musica/I grandi cori sinfonici, e il risalire di un violino/e la memoria senzafine antica dei suoni.”
Un ritorno all’antica sorgente del canto sacro orientale e alla sua fusione con la tradizione liturgica occidentale è, invece, la ricerca straordinaria di Suor Marie Keyrouz e del suo Ensemble de la Paix, composto da musicisti libanesi, che verrà proposta nel concerto “Psaumes et Cantiques de l’Orient” nel duomo romanico di Fidenza. Suor Marie Keyrouz, cantante dalla voce straordinaria è da anni ospitata in tutto il mondo e nel 2006, prima della sua tappa al Festival Natura Dèi Teatri eseguirà concerti in Spagna, in Svezia, in Francia e nel dicembre 2006 alla sede dell’Unesco a Parigi. Suor Marie Keyrouz canta in libanese, arabo, siriano, francese, tedesco, latino a testimoniare la diversa origine di un’unica costante ricerca verso la poesia cantata diretta al divino.

Francesco Pititto

NdT 06 - Uomouccello